Scene di vita presso il Ponte delle Guglie, anonimo, ca. 1700-1799 (Rijksmuseum)

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Se nel primo Quattrocento Venezia si era trovata nel giro di pochi mesi a gestire un vero Stato di Terraferma, quindici giorni del maggio del 1509 erano bastati per perderlo. Questi territori le si erano rivoltati contro e le città lombarde e venete si erano affrettate a consegnarsi ai francesi o all’imperatore. Civiltà d’acqua e civiltà di terra si guardavano del resto con ben poco interesse reciproco, storie differenti separavano la capitale lagunare dai centri urbani che avevano vissuto il potere di signori o di tiranni. Anche le leggi e pure le consuetudini avevano distanziato il vivere d’acqua e di terra. L’acqua aveva dunque rappresentato ab origine una distanza di sicurezza, un argine invalicabile e un’identità che era stata forgiata e veniva trasmessa e riconfermata di continuo dai riti e dal mito che ne faceva una città da sempre libera. Una libertà che le veniva dal mare, radice e forma del vivere in laguna. Mentre verso le terre conquistate i veneziani non avvertivano legami profondi. Lo Stato di Terra suscitava piuttosto meraviglia per la sua vastità, come rivela un brano di una poesia del tempo: Tu signorizi in Tramontana e in Ostro…/Pizola fosti e mo sei tanto larga.

Ma ora la meraviglia si trasformava in sordo rancore. A Venezia la pressione fiscale per sostenere la guerra di difesa e di ripresa dei territori perduti faceva crescere le mormorazioni popolari e le critiche verso il governo: chi godeva degli utili della Terraferma, riportava il Sanudo, era solo la classe di governo e ci si lamentava del fatto, come annotava Girolamo Priuli nei suoi Diarii, che per fortificare le città sottomesse la Repubblica avesse speso tanti milioni di ducati, e le fortificazioni erano state fatte chiamando tutti li inzegnieri et architecti dela Ittalia; tutto questo perché la Republica Veneta tenivanno questo loro Stado et citade di terraferma tanto charo et tantto apresiato, quanto la pupilla deli ochulli loro.

A cosa erano servite queste spese e questa dedizione? Priuli amaramente chiosava che Brescia molto amatta et chara et dilectissima dalla repubblica, senza bota di spada et senza colpo de arteraria et senza morte de hommo in un momento senza rispecto se havea rebellato ali sui gratissimi Signori (nella galleria immagini in basso vedi una pianta di Brescia di Johan Faber del 1610) del e così era accaduto per le altre. Non sarebbe stato meglio spendere i denari per utilità della città lagunare? Non era forse caso di tornare a occuparsi solo del mare, lasciando perdere l’avidità delle proprietà e i sollazzi della terra? Priuli rinfocolava una questione che aveva già diviso il patriziato tempo addietro, tra i “partigiani” del mare, di cui si era fatto interprete l’autorevole senatore Domenico Morosini: L’esperienza fa conoscere che il Veneziano non è nato per la terra ferma, come invece ha naturale disposizione verso il mare. La mercatura sul mare era un’attività nobile che portava benefici a tutta la collettività, saldando quindi il singolo con la comunità, a differenza della proprietà terriera; inoltre il dominio sulle terre provocava la necessità della guerra e come aveva sostenuto il doge Giovanni Mocenigo la guerra era un mestiere del diavolo e solo la pace faceva grandi le città.

Il tradimento più amaro fu quello vissuto nei confronti della città di Padova, da sempre in rivalità con Venezia.

(tp)

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