Scene di vita presso il Ponte delle Guglie, anonimo, ca. 1700-1799 (Rijksmuseum)

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Dopo la vittoria di Agnadello, il re francese, che personalmente guidava l’esercito, avanzava in quel maggio 1509 di smarrimento e disfatta veneziana, a conquistare tutte le terre del bresciano e si spingeva oltre. Era quasi una passeggiata perché i centri della Lombardia veneta si consegnavano senza opporre resistenza. Venezia pagava amaramente il disinteresse per le terre che aveva sì annesse nel secolo precedente ma senza affiliarle davvero alla “patria”. Lo spostamento dell’ottica dal mare alla terra non era stato accompagnato da una volontà conoscitiva e da una vera integrazione. Ma di questo ne racconterò nella prossima puntata. Torniamo a quei giorni drammatici.

I francesi occupavano Bergamo alla fine del mese e i rettori, il provveditore e le altre autorità venete, fatti prigionieri, erano inviati sotto scorta a Milano. Il consiglio municipale di Brescia intanto all’unanimità deliberava la resa e Luigi XII faceva il suo solenne ingresso in città, con corteo di cardinali e nobili. In questo caso una parte dei maggiorenti bresciani ottenevano che il podestà, Sebastiano Giustinian, e la sua famiglia potessero partire per Venezia; stessa concessione per il podestà di Crema, altra città che si arrendeva docilmente. Girolamo Priuli annotava, all’inizio di giugno, che pareva che i padovani volessero seguire l’esempio delle città lombarde Et questi citadini padovani dimostravano uno cativo animo et pessima voluntade verso la Republica veneta .

Le “zanze” (così erano chiamate le notizie) che giungevano a Venezia erano fonte di grande sconforto. Sanudo annotava che molti patrizi disertavano le sedute del Maggior Consilio e andavano come morti e pieni di meninconia per la strada . Pure il doge mostrava strani comportamenti: nel bel mezzo della seduta del 10 giugno il diarista prendeva nota che il doxe si levò di la bancha (banco) e andò a pisar, cossa insolita a lui far . Ogni segno strano, ogni alterazione dal consueto, veniva interpretato come un presagio funesto. Il mercante veneziano Martino Merlini, in una lettera al fratello lontano da Venezia, riportava le espressioni popolari del sentimento di colpa che gravava sulla città, giudicando, com’era nella mentalità di allora, le sconfitte come una punizione divina per i peccati commessi: Ogni zorno tute le jexie (chiese) de questa tera fa prozesion, portano il Crozefiso e chantano le letanie con molte done e omeni driedo tanto devotamente (vedete un particolare della processione di Giovanni Bellini); le donne poi vestivano modestamente e tutti chiedevano misericordia a Dio di nostri mensfati, chome xe el biastemiar, la pocha justizia e gran superbia, uxure, ranpine, sodomie e sacrilegi, perché, concludeva Merlini, in questa tera de questi tal pechadi puzava fin al ziello (cielo) .

Non trovate che vi siano delle analogie con le dichiarazioni rilasciate qualche giorno fa da un noto arcivescovo? Costui ha dichiarato che la pandemia del coronavirus è un effetto del peccato originale e che si tratta di una punizione divina per pratiche quali aborto, eutanasia e matrimoni omosessuali. 500 anni e non sentirli...

Il prelato avrebbe certo gradito l’ordine (grida) emesso il 15 giugno dal governo veneto: tutte le putane con li soi rufiani in termine di due ore dovessero essere levate (espulse) . Sanudo registrava la partenza di mille donne del mestiere, mentre restavano alcune stravestite over secrete e commentava il provvedimento: la causa di tal crida non so, ma fu ben facta . Annotava inoltre la popolazione presente in città: circa 300.000 di cui homini fatti 160.000, 48.346 puti, 80.000 femene

(tp)

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