Giuseppe Canali, pittore e poeta, nasce a Venezia il 21 marzo 1885.
Dopo aver seguito lezioni private di tipo classico in casa, per l’eccessivo senso di protezione del padre, inizia a frequentare lo studio del pittore amico di famiglia Alessandro Milesi, che diventerà il suo maestro prediletto e sarà da lui ricordato sempre con affetto e riconoscenza. Col passare degli anni frequenta anche gli studi di Ettore Tito, di Guglielmo Ciardi e le Accademie di Venezia, Milano, Roma e Firenze.
Trascorre un periodo a Modena (dove conosce Ubaldo Magnavacca e le sue acqueforti), ritorna a Venezia e ritrova l’ambiente favorevole per la sua pittura, definita “tipica veneziana”.
Proprio in questo contesto, oltre alla pittura, continua a dedicarsi alla sua passione giovanile per la poesia, scrive in vernacolo veneziano decine di quaderni di poesie e le più belle, ricordate e recitate – dipingendo oppure agli amici –, sono le Veneziane pubblicate nel 1924 con la prefazione scritta con stima e simpatia da Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, conosciuto anche sotto lo pseudonimo anagrammatico Trilussa.
A Venezia prosegue la sua attività artistica, partecipando a varie Biennali Internazionali d’Arte, sempre rimanendo introverso e riservato, al contrario del suo maestro Milesi, esuberante e impulsivo, da cui apprende la profonda passione per il colore, le luci, la trasparenza e i riflessi dorati delle acque della laguna. Caratteristica è la sua tecnica usata in molti ritratti, con la luce artificiale che si inserisce in quella solare, come nel suo autoritratto, eseguito dopo gli ottant'anni e considerato, dal suo amico Alessandro Pomi, il suo capolavoro.
Muore a Venezia, serenamente, il giorno 12 novembre 1973 dopo tre giorni di malattia, lasciando sul cavalletto il suo ultimo quadro non ancora ultimato.
La gavea vista forse çento volte
E i nostri oci se gavea incontrà;
La gavea bei cavei, le segie folte
E un çerto far che po’ m’ha inamorà.
Ogni zorno dixea: “la fermarò…”
Ma po’ una voxe me dixeva: “no”,
La trovava la sera, la matina,
Epur no gò mai dito: “signorina …”
Ma un zorno, andando in pressa per la strada
Senza vardar nissun, de strambalon
Me son sentio ciapar per un boton;
E tira, tira, tira, finalmente
Me son voltà, me la gò vista ‘rente.
Fazendo in furia in furia una voltada,
La gera rossa e la volea scampar,
Ma bisognava el sial prima molar.
E mi go dito: “a pian per carità,
La varda che la sbrega tuto quanto!
Xe stà el destin che insieme n’ha ligà;
Ghe dispiaze dasseno proprio tanto?”
"Go pressa” la dixeva, e mi: “ò capio.
Per non farla spetar vegnarò a drio”.
El sial a poco a poco s’ha molà
Ma inveçe, el nostro cuor se gà ligà!...— "La trapola", volume Veneziane, Giuseppe Canali