C’erano un centinaio di persone accalcate, che si dimenavano davanti a un muro di casse, incastrate una sull’altra a formare un anfiteatro di musica assordante. Il raduno — una volta si sarebbe chiamato rave, ma quel nome non si usava più da anni, anche per sviare i controlli capillari che cercavano di intercettare l’organizzazione di questi eventi — si era rivelato un successo, considerato che era stato progettato in meno di ventiquattro ore, e diffuso via canali criptati a una rete di persone selezionate. Che a loro volta avevano portato altri invitati, garantendo per loro.
Quella serata specifica poi era particolarmente a rischio, dato che le offerte sarebbero servite per finanziare un comitato di protesta contro la costruzione, nelle colline lì vicino, di una base di terra del D-E, un sistema di telecomunicazione satellitare usato anche per operare sciami di droni da sorveglianza e da guerra. Avrebbe potuto passare come manifestazione non autorizzata, e violare le dure leggi sullo stato di emergenza che prendevano di mira soprattutto gli assembramenti a sfondo politico.
Ma ormai era andata, il raduno era in corso, le offerte erano arrivate e molti dei partecipanti — ripieni di alcol e sostanze varie — stavano ballando da ore nel piazzale di un centro sportivo abbandonato. Ai margini dell’anfiteatro improvvisato, due furgoncini affiancati distribuivano panini e bibite: da una parte porchetta e affettati vari; dall’altra burger vegani, falafel e hummus. Cartelli diffusi ovunque ricordavano ai partecipanti di scollegare i telefoni e di non scattare foto di alcun tipo. Un servizio d’ordine distribuito sui punti di accesso controllava che non arrivassero forze dell’ordine; alcuni in particolare stavano di vedetta per lanciare l’allerta in caso di retate. C’erano giovani di ogni età, dai sedici ai trenta anni, soprattutto ventenni. Due ragazze dai capelli multicolori si avvicinarono a un tipo slanciato, bruno, con la coda, che stava seduto su una ringhiera in disparte, ai margini dell’arena, fumando una canna. Calcava un cappellino che gli scuriva ancora di più gli occhi grandi, vividi e neri. Aveva un accenno di barba che si massaggiava ai lati delle guance quando era più nervoso.
«Ciao, sei Davide vero? ce l’hai del Meow Meow?» gli chiesero sopprimendo una risatina.
«No, quella roba non la tengo, i sali mi fanno schifo.»
Le due ragazze lo guardarono interdette.
«Se volete ho della classica Mdma, buona.»
Le giovani si guardarono e annuirono, con l’aria delusa di chi si deve accontentare della solita minestra. La transazione avvenne in pochi secondi, senza contrattazione. Appena presi i soldi, il ragazzo fece per andarsene ma una delle due lo apostrofò.
«Senti, pare che abbiano problemi col computer là, nella cabina di comando.»
«Scusa?»
«Il Dj ha un problema col pc. Magari li puoi aiutare. Dicono che sei bravo, con queste cose.»
Davide la guardò senza battere ciglio.
«Dicono cazzate.»
Così dicendo scese dalla ringhiera con un balzo e si allontanò. La festa non era ancora finita e non era da lui andarsene prima; ma quella sera aveva un demone che lo perseguitava, e quelle ragazzine idiote glielo avevano risvegliato tutto d’un tratto. Chi diceva che era bravo col pc, chi aveva sparso quella voce? Prese al volo un passaggio verso la città da alcuni ragazzi che rientravano, poi una volta sceso in centro s’infilò nella metro. Si guardò attorno, individuando l’angolazione delle telecamere, e tirò fuori dalla tasca un apparecchio che appoggiato alla colonnina la faceva aprire senza dover usare la propria carta d’identità elettronica, abbonamenti o tessere. La banchina era deserta. Mentre risaliva sulle scale mobili si decise a riaccendere il cellulare, dando un’occhiata alle notizie. «Attacco hacker al cuore dello Stato, 40 Gigabyte di documenti militari finiti in Rete.» 40 Gigabyte... Gli scappò un sorriso. «Sospetti sul Red Army cinese».
Quando entrò nel suo appartamento, una soffitta in cima a un palazzone popolato da immigrati e qualche italiano disoccupato, controllò che fosse tutto in ordine. Si avvicinò a una cassa dello stereo, e ne staccò il woofer. Guardò per qualche istante la piccola cassaforte che vi stava incastonata dentro, ma ci ripensò e richiuse tutto. Poi andò nella zona cucina — un lavandino scrostato, un piccolo frigo e un fornello da campo che stavano in un angolo di quei venti metri quadri complessivi — e chinandosi spostò un pezzo del battiscopa impiallacciato. Dall’intercapedine tirò fuori un pacco racchiuso nel cellophane, ne estrasse il contenuto, un hard disk nero grande come una piastrella, accese il pc e lo collegò, decifrandolo.
Adesso arrivano i restanti 60 Gigabyte, pensò mentre ne frugava le cartelle. Si accese una sigaretta e afferrò un cuscino da piazzare sullo schienale della sedia in legno, l’unica dell’appartamento, che aveva recuperato per strada; e cercò di mettersi il più possibile comodo. Aveva passato incollato al pc, con brevi pause, le ultime 48 ore. Poi gli tornarono in mente alcuni file che aveva visto di sfuggita la sera prima e decise di andare a guardarli meglio. Li aprì. Ne aprì altri, fermandosi a leggere mentre si sfregava una guancia. Era il cuore della notte, e anche se i suoi ritmi circadiani stavano tutti a soqquadro, iniziava a sentirsi stanco. Spossato, ma ancora vigile. Anche perché c’era qualcosa che proprio non gli tornava. Ricontrollò una seconda volta quello che aveva davanti e imprecò. Staccò di corsa il router. Devo prima capire che è questa roba, si disse infilandosi un’altra felpa sopra quella che già indossava. Aveva solo una stufa elettrica nell’appartamento e faceva freddo; o forse lo sentiva più del solito.
Scritto da: Carola Frediani
Questo contenuto appartiene alla serie del libro: Fuori controlloCyber-thriller ambientato in Italia, scritto dalla giornalista investigativa Carola Frediani.